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CERTO CHE HO DICHIARATO IL FALSO: MA SOLO PER SALVARMI!

Sentenza 21987/2023 Cassazione Penale
(Approfondimento giuridico)

A volte anche la Suprema Corte si avventura nel prendere decisioni che possono essere definite, quantomeno, singolari.
Nella sentenza che prendiamo in esame come approfondimento giuridico, ha emesso una pronuncia in merito ad un ricorso, nel quale si invocava l’ipotesi di non punibilità per falsa testimonianza, ai sensi dell’art.384, comma 1 c.p.:
detta falsa testimonianza veniva contestata al medesimo ricorrente.

La difesa ha giocato le proprie ipotesi liberatorie su due essenziali motivi.
Il primo motivo, proprio in riferimento alla citata causa di non pulitità, si basava sull’assunto che il ricorrente, anche per le modalità con cui era stato interrogato dal P.M., aveva vissuto il timore di poter essere incriminato: di fatto, l’aver acquistato dei quadri risultati di provenienza furtiva, lo metteva nella condizione di poter essere accusato, quanto meno, del reato di ricettazione.
La Corte, invece, non ha ritenuto condivisibile questa prima tesi difensiva in quanto, la causa di esclusione di punibilità, come prevista dal citato art.384, comma 1 c.p., e’ prevista per quel teste che, per salvare se stesso o suoi congiunti da una grave compromissione della libertà o dell’onore, sia costretto a rendere dichiarazioni mendaci per evitare una condanna penale.
Tale timore, però, afferma la Corte, deve essere confortato da una condizione di immediata conseguenzialita’ tra cose riferite ed il rischio di condanna, e non può essere frutto di una semplice suggestione (cfr.Cass. 29940/2022).
Il principio va ulteriormente confermato, afferma la Corte, in considerazione delle modalità che il processo penale aveva avuto fino a quel momento: di fatto, secondo i giudici della Suprema, risultava dalla anamnesi del procedimento, che il ricorrente aveva avuto da subito un atteggiamento collaborativo, dando addirittura indicazioni valide per risalire al venditore della merce venduta.
Detta condizione, dunque, non poteva creare timore nello stesso, di un accusa formale nei suoi confronti.

Non ritenuta condivisibile nemmeno la seconda motivazione del ricorso, che tendeva a dimostrare che il ricorrente non avrebbe potuto nemmeno essere escusso come teste, bensì avrebbe dovuto godere delle garanzie previste dalla normativa, non potendo essere costretto a tale deposizione, ai sensi dell’art.198, comma 2 c.p.p.

La giurisprudenza ha sempre chiarito che compete unicamente al giudice la possibilità di attribuire al teste la qualità di indagato (cfr.Cass. 20098/2016 – 46203/2019 – 25425/2020).

I motivi che hanno indotto la Corte a rigettare il ricorso, si sono basati dunque sul fatto che, fino al momento della resa testimonianza, non era emerso nessun elemento, neppure indiziario, per far ritenere che tale deposizione potesse essere resa in lesione di una propria situazione di imputabilità.

L’opinabilità di questa sentenza, però, si basa sul fatto che non è stata tenuta nel debito conto la circostanza comprovata che, lo stesso P.M., aveva intimorito il teste prima che rendesse la sua deposizione, paventando potenziali provvedimenti a suo carico: ciò rende la pronunzia quantomeno discutibile, sul piano della legittimità della valutazione giuridica.