Sentenza 37618/2023 Corte di Cassazione
Ormai quasi tutti si sono abituati ad agire sui social e sui gruppi, senza mettere in atto alcun tipo di filtro comportamentale e, il controllo attuato dalla rete per evitare situazioni spiacevoli, non sempre si dimostra sufficiente per risolvere il problema.
Di recente la Corte è stata compulsata, per dirimere un dubbio sorto a seguito della condanna di un soggetto, che aveva diffamato altri individui nell’ambito di un gruppo WhatsApp.
Il verdetto aveva accreditato la tesi del Pubblico Ministero, riconoscendo a detto comportamento, l’aggravante di cui all’articolo 599-3 Codice Penale.
La Suprema Corte ha però mutato detta pronunzia, ritenendo che non sia legittimamente applicabile il gravame, quando un’offesa viene attuata attraverso un gruppo privato.
Di fatto, l’aggravante scatta quando l’offesa viene effettuata attraverso un “mezzo di pubblicità”: ovvero in un contesto che può essere seguito da un numero imprecisato di persone, come accade sul web o nei messaggi social.
Non è questo il caso, secondo la Corte, in quanto i messaggi in un gruppo Whatsapp possono essere visionati da un numero ristretto di partecipanti, che hanno preventivamente accettato di farne parte: questo rende qualunque comunicazione “riservata”.
Non ritenuto quindi equiparabile il reato di diffamazione, se è attuato nelle due diverse modalità.