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Il codice della crisi d’impresa riproduce la lettera delle norme incriminatrici presenti nella legge fallimentare.

Lo ha stabilito la quinta sezione penale della Cassazione nella sentenza 12056/21, pubblicata il 30 marzo, nella quale viene chiarito che la bancarotta fraudolenta non cambierà, anche con l’entrata in vigore del codice della crisi d’impresa, rimandata causa Covid 19 al primo settembre prossimo. Quindi, le norme civilistiche già operative che sostituiscono la liquidazione al fallimento non mutano la fattispecie dell’insolvenza d’impresa, cioè il presupposto su cui si fondano le norme penali, ma si limitano ad aggiornare la terminologia; niente eventuale favor rei dunque. Dunque la condanna inflitta all’amministratore unico della società per bancarotta fraudolenta pluriaggravata, patrimoniale e documentale diventa definitiva e, non giova alla difesa dedurre che con l’entrata in vigore della riforma fallimentare si configurerebbe un’ipotesi di abolitio criminis grazie alla modifica della legge extrapenale a fondamento delle norme incriminatrici. E ciò perché mancano i presupposti perché si applichi il principio ex art. 2, secondo comma, c.p. sulla retroattività della legge più favorevole per l’imputato, perché, il decreto legislativo 14/2019 è entrato in vigore in minima parte mentre il grosso della riforma sarebbe dovuto diventare operativo il 15 agosto scorso ma il termine è stato spostato a settembre 2021 dal decreto liquidità approvato in piena pandemia. In ogni caso la riforma non produce alcun effetto sul sistema dei reati fallimentari, il codice della crisi d’impresa riproduce la lettera delle norme incriminatrici declinate dalla legge fallimentare.