Sentenza 5079/2024 Cassazione Penale
Il fine di spaccio, nel reato di detenzione di stupefacenti, è un elemento costitutivo la cui esistenza deve essere provata dall’accusa pubblica.
A tale conclusione è giunta la Suprema Corte, nella sentenza che ha accolto il ricorso di un condannato, giudicato colpevole con le forme del rito abbreviato in entrambi i gradi di merito, del delitto di detenzione illecita a fini di spaccio di 101 grammi di marijuana e 8 grammi di hashish.
La difesa ha rilevato l’illogicità della motivazione della Corte territoriale, unitamente alla violazione di legge, basata su un inesistente e non provato fine di spaccio.
La Corte ha ritenuto che i giudici d’appello avessero sottovalutato plurime circostanze che, se correttamente apprezzate, avrebbero determinato un diverso esito.
Prima fra tutte che il ricorrente era un consumatore di sostanze stupefacenti (iscritto fin dal 1992 al SERT), e che seguiva un programma riabilitativo: poi, che lo stupefacente trovato in suo possesso non era diviso in dosi e nessuna somma di denaro era stata trovata nella sua disponibilità.
Il ritrovamento di un bilancino, in assenza di altri elementi indiziari, era di per se stessa compatibile con l’uso personale.
Anche il quantitativo, pur avendo un valore indiziario, era comunque compatibile con l’intento di detenere una riserva.
Ai fini della configurabilità dell’illecita detenzione di stupefacente, (cfr.Cass.26738/2020), la destinazione ad uso personale della sostanza non è una causa di non punibilità: in coseguenza non è onere dell’imputato darne prova, spettando all’accusa di provare la destinazione per spaccio.
Tale prova non è stata raggiunta nel caso in esame.
Non essendo stata prodotta tale circostanza, la sequenza argomentativa dei giudici di merito è risultata viziata dalla mancanza di un elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice, contestata al ricorrente.
La sentenza impugnata è stata quindi cassata senza rinvio, in assenza di valide argomentazioni giuridiche.