Sentenza 25059/2024 Cassazione Penale
Questa pronunzia della Suprema Corte ha evidenziato quanto l’impiego del “notorio e delle presunzioni” come prove nel contesto del danno alla reputazione, sia un tema di rilevanza giuridica.
In base al principio “id quod plerumque accidit”, si presume che un evento segua l’andamento più comune e, nella diffamazione, il notorio può consistere in fatti universalmente riconosciuti come dannosi per la reputazione: le presunzioni, d’altra parte, possono derivare da circostanze note che provocano un danno morale.
Il ricorso a tali prove, tuttavia, richiede una rigorosa valutazione dei giudici, ed è fondamentale dimostrare che il fatto notorio o la presunzione siano direttamente collegati al danno subito.
In questo caso la Corte ha dovuto considerare la gravità del danno alla reputazione, valutando se il notorio o le presunzioni fossero sufficienti a sostenerne la portata.
Inoltre, il ricorso a queste prove deve rispettare i principi di equità processuale: l’opportunità per la parte avversa di contestarne la validità è essenziale, per garantire un processo giusto e, in caso di mezzi diffamatori, è cruciale stabilire un nesso causale tra tali mezzi e il danno reputazionale, soprattutto in riferimento alla sofferenza morale, componente essenziale nel risarcimento, che può essere dimostrata attraverso testimonianze e prove circostanziali.
L’utilizzo del “id quod plerumque accidit” può rafforzare la richiesta di risarcimento, mostrando che l’evento diffamatorio ha causato danni simili in situazioni analoghe.
La legittimità del ricorso al notorio e alle presunzioni come prove nel contesto del danno alla reputazione richiede, in buona sostanza, un bilanciamento attento delle circostanze e sempre, la robustezza delle prove e la salvaguardia dei diritti delle parti coinvolte, devono essere garantite per assicurare un giusto processo ed un equo risarcimento.