Sentenza 8/2025 Corte Cassazione
La Suprema Corte ha sancito che la richiesta di poter svolgere colloqui con la propria moglie in condizioni di intimità, avanzata dal detenuto ricorrente, “non costituisce una mera aspettativa, essendo stato affermato che tali colloqui costituiscono una legittima espressione del diritto all’affettività e alla coltivazione dei rapporti familiari, e possono essere negati, secondo l’esplicito dettato della sentenza citata, solo per ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, ovvero per il comportamento non corretto dello stesso detenuto o per ragioni giudiziarie, in caso di soggetto ancora imputato“.
Con ordinanza emessa dall’Ufficio di Sorveglianza, era stata dichiarata inammissibile l’impugnazione proposta dal ricorrente contro il provvedimento con cui gli era stato negato un colloquio in intimità con la propria moglie: in buona sostanza, secondo il giudice la richiesta del detenuto non configurava un vero e proprio diritto, ma una mera aspettativa, non tutelabile in via giurisdizionale.
La declaratoria di inammissibilità è stata motivata dal fatto che la richiesta del detenuto rappresenterebbe una mera «aspettativa» e non un diritto, per cui lo stesso strumento del reclamo giurisdizionale da lui adottato sarebbe errato.
La Corte ha specificato che la libertà di godimento delle relazioni affettive “costituisce un diritto costituzionalmente tutelato, diritto che lo stato di detenzione può comprimere quanto alle modalità di esercizio, ma non può totalmente annullare, con una previsione astratta e generalizzata, che non tenga conto delle condizioni individuali del detenuto e delle sue prospettive di risocializzazione, in quanto ciò si tradurrebbe in una lesione della dignità della persona“.
La Consulta ha precisato che l’impossibilità, per il detenuto, di esprimere una normale affettività con il partner si traduce in un vulnus dei suoi rapporti familiari e viola gli artt. 27 Cost. e 117 Cost., in relazione all’art. 8 CEDU.
Il reclamo proposto dal detenuto ricorrente, pertanto, non doveva essere dichiarato inammissibile ma doveva essere valutato dal magistrato di sorveglianza ai sensi dell’art. 35-bis Ord. pen.