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Sentenza 43383/2023 Corte Cassazione

Chi si avventura in dispute legali, molte volte si trova doppiamente coinvolto: nel dover affrontare le ragioni di una controparte bellicosa e, a fine causa, nel dover fronteggiare la parcella emessa dal proprio legale, come doverosa ricompensa dell’attività svolta.
Nel caso preso in esame, il patrocinato ha ritenuto che la richiesta di emolumenti da parte del patrocinante, eccedesse i limiti del buon gusto e, certo delle proprie ragioni, aveva presentato un esposto al Consiglio dell’Ordine di appartenenza del legale, adoperando, però, un linguaggio eccessivamente colorito.
D’accordo che si sentiva tradito da parte di chi doveva difenderlo ma, le terminologie adoperate, non erano certo le più appropriate.
Di qui il ricorso del legale, che riscontrava gli estremi di una diffamazione, derivante dagli scritti “focosi” del suo assistito.
Dopo attenta disamina, la Corte ha sentenziato che “non integra” il reato di diffamazione, la condotta di chi invia una segnalazione alle competenti autorità, ancorché contenente espressioni pesanti: ricorre, di fatto, la generale causa di giustificazione ex articolo 51 Codice Penale, riferito al “diritto di critica”, laddove l’agente lo abbia esercitato, seppur sbagliando, nel convincimento di sottoporre dei fatti al controllo di chi di dovere, per riscontrare eventuali violazioni di regole deontologiche.