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Sentenza 8616/2024 Corte Cassazione

La Suprema Corte ha sancito che la valenza di una minaccia ad un pubblico ufficiale, per costringerlo a non fare il proprio dovere, di cui all’art. 336 cod. pen., deve tenere conto delle circostanze oggettive e soggettive del fatto.

In buona sostanza, anche se la minaccia è vaga, a meno che non sia chiaramente inattuabile, non esclude la fattispecie del reato, dovendo riferirsi alla potenzialità costrittiva del male ingiusto prospettato.

È infatti opportuno precisare che il tenore generico delle minacce, deve essere valutato alla luce delle circostanze del caso e dando peso alla personalità di chi le proferisce: se avanzate da qualcuno “lasciano il tempo che trovano“, attuate da altri possono produrre un effetto devastante in chi le subisce.

Nel caso in esame, l’atteggiamento e le frasi minacciose erano state proferite da un soggetto ben noto agli agenti che procedevano al controllo d’identità non gradito dallo stesso, noto per appartenenza ad associazione di stampo mafioso.

In considerazione di ciò, dette minacce, avevano ottenuto un effetto realmente intimidatorio, seppur generiche: «sempre a me controllate; mi dovete lasciar perdere altrimenti va a finire male, ora chiamo il mio avvocato e vi denuncio: io mi sono fatto trent’anni di carcere con alcuni pezzi grossi e ve la faccio pagare».

Per quanto vaghi, dunque, riconosciuti integrati gli elementi della fattispecie di reato: compresa la finalizzazione soggettiva della condotta intimidatoria, tesa ad impedire il compimento di un atto dovuto, da parte dei pubblici ufficiali procedenti.